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"La ricerca della leggerezza" di Francesco Montemurro
Guardando le opere di Valente Cancogni si scorgono due aspetti - e, diremmo, due diritture - di per se illuminanti. A queste due “inquadrature”, tuttavia, si giustappone un’altra, nascosta eppur gridata.
Ebbene, ciò che appare immediatamente evidente è, da una parte, l’appassionata ricerca di un criterio, di una valenza e di un rigore razionali; dall’altra, il fermo desiderio di superare l’insita rigidità degli schemi.
Non a caso Cancogni si convince che l’essere autodidatti, forse, non premia. Da qui gli studi accademici in un’età che non è facilmente foriera di novità o dirompenti scelte.
E dunque, l’Artista trova il modo di appagare la propria sete di sapere e la propria innata curiosità: si getta a capofitto negli studi. Compendiando questo primo aspetto della vita artistica di Cancogni, è agevole intravederne i contorni: desiderio di conoscenza, costanza e passione nella ricerca.
Utilizzando questa finestra, possiamo allora percepire nelle opere di Valente quel tessuto e quelle variegate trame che gli indistinti e molteplici studi gli hanno sin qui suggerito.
D’un tratto, però, avvertiamo che lo studio accademico ha aperto le porte all’insofferenza, vale a dire a quel secondo volto cui si accennava.
Ho avuto la fortuna di ricevere un piccolo grande dono dall’Artista: devo dire, con tutta sincerità, che più ho rimirato l’opera, più ho compreso come in essa non vi fosse nulla di “canonico”; perché anzi, traspare la capacità e la caparbia volontà di scollarsi i retaggi angusti; per poi librarsi. Nel coacervo degli studi accademici, egli si è sentito come confinato e coartato.
La logica conseguenza e il naturale sbocco sono stati il tentativo coraggioso - e già riuscito - di andare là dove le selvagge emozioni imperano; là dove ululano l’emotività e l’irrazionalità.
Ma a questo punto l’Artista mostra la terza faccia, quella che avevamo definito nascosta eppur gridata. Terza faccia che sintetizza quanto le prime due avevano mostrato. Come nella triade di tesi, antitesi e sintesi di hegeliana memoria, ecco in Cancogni comparire la poesia, che dà infine respiro e luce a razionalità e irrazionalità , l’una di per sé troppo mediata, l’altra di per sé troppo istintiva. Basta infatti soffermare l’attenzione su quelle splendide figurette scolpite, per capire come sia la poesia e - non altro - a governare il cuore e la vita dell’Artista. Ma ora è giusto e doveroso che il Nostro si libri leggero. Ancor più leggero, leggero proprio come quell’impalpabile e leggiadra coppia in terracotta dall’emblematico titolo “ I ballerini danzavano leggeri”. Per l’appunto.

 
 

"Il sentire interiore" di Enrica Frediani
Artista sensibile ai moti dell’animo, opera nella lezione della grande scultura e nella continua ricerca dell’anima nell’immagine, preoccupandosi che l’aggregazione materica mantenga, nella forma, toni espressionistici dalle intensità sofferte e per questo drammatiche.
Affascinato dalle suggestioni del passato, radicate nella tradizione della plastica europea, Cancogni cerca la personale risposta in una modellazione aggettante, dall’immediata risoluzione che conservi l’emotività del momento e la freschezza d’esecuzione trovando piena soddisfazione nella creta e nel bronzo.
Una scultura che si affida principalmente al forte impatto materico per esprimere un dilaniante sentire interiore che stravolge e trasforma i volti rappresentati, caratterizzati da un movimento di torsione del collo e del volto che pare vogliano liberarsi per uscire dalla materia che li imprigiona.
Nella modellazione plastica sono soprattutto i volti che interessano l’artista, ma anche esili figure femminili, singole o in coppia, proiettate verso l’alto, verso direi, uno spazio gotico e
nell’operare , egli passa indifferentemente dallo sfaldamento della materia, ad un modellato più asciutto e nervoso dal quale emergono volti antropomorfi.
Alle origini della pittura di Cancogni vi è una partecipazione emotiva verso l’espressionismo che restituisce nelle sue tele con i colori dei Fauves.
In essa restano comunque immutate le motivazioni dell’artista, ma il messaggio viene ora trasmesso con una capacità espressiva più composta e controllata dei volti e dei corpi.
La pennellata è robusta, senza tuttavia eccedere nella materia e il segno, chiaramente di derivazione grafica, lascia intuire la scioltezza di una mano sempre in esercizio.
Il dialogo espressivo si alza decisamente nei colori dalla tonalità accesa, che solcano, come segnali di fuoco la tela che appare attraversata da energiche pennellate volte a creare un clima pittorico che rappresenta intensi ed esplicativi momenti di realismo esistenziale ma, la vivacità del cromatismo giocato prevalentemente nei colori primari, non riesce a mascherare la velata tristezza e l’atmosfera distaccata che avvolge i volti dei personaggi.

"L'aurea della sua umanità" di Massimo Bertozzi
C’è, nella scultura di Valente Cancogni, una evidente, e quasi proclamata, intenzione di vincere la pesantezza, densa e opaca, della materia. Tutto ciò ubbidisce a una necessità espressiva, che è quella di dare forma al movimento ma anche quella di cercare l’identità profonda della figura, oltreché a sollecitazioni interiori che non si arrestano neppure di fronte all’inevitabile aggressione ai valori plastici della materia.
Il risultato è così una progressiva perdita di densità, per cui il movimento non è più sorretto dalla spinta interiore della materia, ma dalla modulazione dei profili e dalla frammentazione delle superfici.
Ecco così la forte concentrazione delle figure in attesa come di quelle prese dal vorticare di una danza, in ogni caso struggimenti dell’anima che si condensano in forme fantasmatiche, sostenute da una materia ormai allo stremo, come cera molle provata dal fuoco o, se si vuole, come neve che prova a resistere al sole.
Ed ecco ancora figure che si sfaldano in una nostalgia del vigore perduto, ma che anche per questa via non intendono rinunciare ad occupare lo spazio da cui sono costrette a ritrarsi, e perciò si affidano allo sviluppo di un vaporoso movimento, in cui si spande il senso di mistero che sprigiona la loro concentrazione espressiva.
Perché all’uomo si può togliere tutto, carne e nervi e sangue, cercando di cancellare ogni connotazione della sua identità fisica, ma alla fine rimane, inafferrabile e perciò indistruttibile come la presenza degli angeli, l’aura della sua umanità.

 

 

"Vivo nell'espressione della faccia dell'altro"
fffffffffffdi Giuseppe Cordoni

Nell'altro che ci viene incontro è riflessa la nostra identità. L'altro è sempre un nostro specchio. Non sapremo mai veramente chi siamo senza tuffarci, fosse solo per un istante, nel mistero del suo sguardo. "Non cerco di rappresentarela figura somigliante al vero, voglio sentire di farne aprte", così come accade nel vigore pittorico di questo suo intensissimo Incontro. Valente esaspera questa bruciante tensione degli esseri assetati di comprendersi. L'uno di fronte all'altro, il loro io nascosto non mira che a farsi ekstasi, uscia fuori di sé, stupore della mente e del cuore che si rivelano. Perciò i loro contorni si sfaldano, luce ed ombra si compenetrano e i colori si addensano e si sfumano, sciamando un'energia d'amore liberata.

"Nuove Radici" di Claudia Colasanti
Valente Cancogni oscilla tra tradizione e modernità alla ricerca di un esatto equilibrio formale. L’identità si pone per lui come uno soglia di passaggio, stratificata su possenti porte d’acciaio e ferro, cui alcuni simboli, come la sfera, fondano il punto di incontro.

 
 

"Confronti e incontri" di Elena Caponi
Dualismo, forza plastica riscoperta nella materia in se stessa e attraverso l’intervento artistico, su assi di confronto ed opposizione, contrasto, sofferente e finale compiuta sintesi formale, sono i caratteri dell’espressionismo figurativo, nel rapporto tra individuo e materia, entrambi in autonomia di confronto e incontro, nelle realizzazioni artistiche di Valente Cancogni.
Dalle sproporzioni di senso di El Greco ai ripiegamenti sofferti di Rodin, una generale curiosità antropologica per la vitalità intrinseca dei materiali – ceramica, bronzo, acciaio, legno - percepiti essi stessi non solo come “mezzi” di supporto, ma corpo autonomo ed “auto-esprimente”, ritorna il quesito aperto del rapporto tra vita e materia, lungo le linee incomplete di una soluzione formale incompiuta e mai definitiva o finale.

"Anima" di Beatrice Niccolai, poetessa
Ho avuto la straordinaria fortuna di incontrare e conoscere Valente Cancogni. Prima attraverso le sue opere, poi nella persona e in entrambe le circostanze ho trovato l’essenza dei suoi lavori, che non sono “lavori” ma atti di ricerca, di sperimentazione, di Amore. Possono essere definiti monologhi o dialoghi ma comunque vogliano chiamarsi, trovo ricerca, poesia, libertà espressiva, anima.
Anima. Perché questo Valente è. Quando l’anima domina il restante, l’uomo, l’artista sono solo mezzi attraverso le cui mani esprimono un universo interiore.
Silenzioso. Quel silenzio che grida sottovoce e che si fa sentire da chi si sofferma davanti alla trasformazione della materia.
Non sono un’esperta d’arte. Però mi commuove un’opera quando arriva dove non ci sono codici convenzionali e dove l’opera pur in apparente silenzio, parla. Le opere di Valente hanno la caratteristica del mantenere intatta in loro stesse l’origine in divenire.
La materia quasi grezza, che libera emozioni. Quelle emozioni che nell’apparente silenzio sono una neve inversa che dalla terra sale verso il silenzio del cielo dove Valente pone le sue domande. Simile a un albero, Valente ha solide radici interiori che vivono nella linfa silenziosa e diventano la maestosità di rami e foglie. Valente, così come l’albero, non ha la consapevolezza della sua importanza.
Ed è anche in questo, il coronamento della sua bellezza.
 
 
"Quando Aristotele "ipotizzò" Cancogni" di Bruno Balloni
Quasi alto, magro al punto giusto, il passo svelto e pulito di chi sà dove andare, e arrivarci. Più che parlare, ascolta, e lo sguardo… vede.Fisiognomia. Aristotele, utilizzò per primo questo termine per disegnare la scienza che deduceva “i caratteri spirituali dal loro aspetto corporeo”.
Abbiamo capito. Ma la fisiognomia di Valente può dettare una verticale (scultura-pittura) parallela al suo “corpus? Per me è una porta aperta. Osservate lui e le sue sculture. Padre e figli. Non c’è verso.
Ossute, nervose, plasmate con furia (fretta) di finire ciò che nelle sue creazioni non contempla pentimenti. Quando è finita non si tocca. La fluenza dello spirito, guida le mani, un bisturi nella creta, dove la percezione e precisione visiva dovrà essere senza appello. Nel bene e nel male. Unica opzione, distruggere, e ricominciare. Non so se sia successo, poiché le sue opere sono vere, hanno luce propria, anche sotto la luce “artificialmente accecante”. I suoi lavori, sono come una “second life” della sua esistenza, le sue sculture “furti di tempo” al quotidiano.Ma se si arriva a nutrirsi di idee, di verità, di quel fuoco mai sopito, che quando sprizza in vene e cervello, ci alza in levitazione pura, si può anche fare a meno di quanto è terreno. E del suo sinonimo. Umano.

 

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